Centrale di Cerano, storia di promesse non mantenute…

Se l’Enel avesse mantenuto anche solo in parte le promesse fatte negli anni novanta oggi la chiusura della centrale di Cerano non avrebbe rappresentato un problema: il tessuto economico e produttivo del territorio avrebbe avuto gli anticorpi per affrontare nel migliore dei modi il processo di riconversione industriale, mentre la stessa società elettrica avrebbe potuto valutare quanti e quali investimenti alternativi realizzare nelle centinaia di ettari a sua disposizione.

Di tutto questo, purtroppo, non c’è alcuna traccia e tra qualche mese sulla centrale di Cerano si metterà la parola fine con un campo di battaglia stracolmo di morti e feriti.

In quasi 30 anni di esercizio, infatti, la centrale “Federico II” (che vergogna aver infangato il nome dello “Stupor Mundi” per una centrale oggetto di danni ambientali e di rischi per la salute dei cittadini) ha prodotto utili stratosferici per i soci (e quindi soprattutto per lo Stato), così come gravissimi danni ambientali e rischi esorbitanti per gli abitanti delle province salentine.

Ci hanno fatto credere che l’utilizzo di olio combustibile, poi di orimulsion ed infine di carbone fosse come un prato di papaveri e margherite. E invece in atmosfera è arrivato proprio di tutto, mentre il polverino del cosiddetto oro nero continuava a trapanarci i polmoni.

Un prezzo da pagare per avere ricchezza e sviluppo? Purtroppo anche questa è stata una enorme bugia, perché le imprese locali sono state letteralmente taglieggiate con appalti al ribasso e moltissime di loro hanno già da tempo chiuso i battenti con fallimenti provocati dall’aver detto “si” a condizioni inaccettabili.

Certo – avrà pensato qualcuno – è il prezzo da pagare per poter indossare la medaglietta della città che fornisce energia elettrica al paese. Lo stesso paese che non si potrà dimenticare di noi. E invece niente di tutto questo.

Utilizziamo un esempio per essere più chiari. Un lavoratore deve accantonare contributi per 40 anni per avere, una volta a riposo, una pensione dignitosa. L’Enel, invece, nei 30 anni di presenza a Cerano (e prima a Costa Morena con la centrale Brindisi Nord) i soldi che avrebbe dovuto accantonare per assicurare un futuro a Brindisi anche dopo la dismissione della centrale li ha inseriti nei dividendi tra soci ed oggi non è in grado di offrire un centesimo a Brindisi per costruirsi un futuro diverso da quella ciminiera che ha devastato la costa sud.

E dire che ci eravamo illusi che tutto questo non sarebbe mai accaduto. Del resto, anche la locale sezione di Confindustria ha ripetuto più volte che l’Enel non avrebbe mai abbandonato Brindisi. E invece la storia recente dice cose diverse e se non fosse stato per un tavolo ministeriale proposto ed ottenuto dai parlamentari Dattis e Battilocchio nessuno oggi parlerebbe della ormai imminente chiusura delle centrali di Brindisi e Civitavecchia. Su quel tavolo si sta discutendo di nuovi investimenti e la risposta ottenuta dal bando del Mimit è confortante, così come l’approdo in un accordo di programma proprio per noi, con tanto di commissario di governo per la fase del permissing.

Ma l’Enel non può andarsene così, come se non avesse pregiudicato per decenni il futuro di Brindisi. Non vuole fare investimenti alternativi? Bene, allora smonti le immense ferraglie della centrale e bonifichi centinaia di ettari prima di scappar sene. Venerdì scorso il Sole 24 Ore, così come il presidente di Confindustria Brindisi, hanno acceso una speranza, parlando di “riconversione” della centrale. Ma per farlo deve sparire quella enorme carcassa e ci auguriamo che sia davvero un impegno di Enel e che non sia una promessa come quella che l’Enel non avrebbe mai lasciato Brindisi.

Nel frattempo – per quello che ci risulta – ha convocato in Confindustria qualche impresa per smontare un pezzetto di nastro trasportatore e ciò che si trova sulle banchine del porto. Una miseria rispetto a quello che ci tocca realmente. Ma il comparto produttivo brindisino non merita anche questo affronto e prima o poi troverà anche la forza di reagire rispetto a chi, dopo essersi arricchito, ci offre solo un posto in fila alla mensa dei poveri.

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