“Ho sostenuto, in altri interventi, come l’agricoltura brindisina, per superficie agraria (333 Kmq), per fertilità dei propri terreni, per qualità delle sue produzioni, per il giro di affari che determina, per l’occupazione che crea, è un settore che dovrebbe avere maggiore attenzione da parte della stessa città, delle sue istituzioni e delle sue rappresentanze sociali e politiche. E non solo dal punto di vista economico e produttivo. Il settore e non solo esso ne paga le conseguenze. Eppure andando non molto indietro nei tempi e prima della industrializzazione degli anni 60, fu proprio grazie all’agricoltura che Brindisi conobbe la sua prima industrializzazione, la sua modernizzazione e la sua stessa internazionalizzazione. La città di Brindisi a metà del 1800 visse in pochi decenni una completa trasformazione passando da città poco abitata e depressa a città attiva, produttiva e dai grandi collegamenti commerciali. Tutto questo fu dovuto per la sua agricoltura e soprattutto per la sua viticoltura. L’agricoltura si trasformò e trasformò la città, il territorio e il suo paesaggio. Fu rivitalizzato e rivalorizzato il porto che divenne il supporto e la infrastruttura per la commercializzazione del vino prodotto nella campagna brindisina. Si avviò quella che si può considerare la sua prima industrializzazione. Nel 1910, afferma Camassa, nella sua guida di Brindisi, che in città c’erano più di 100 stabilimenti enologici (oggi ormai tutti distrutti e dati alla speculazione edilizia), fiorivano le industrie del legno e delle botti. A fine ‘800 Brindisi cambia la sua struttura urbanistica, cambia il suo paesaggio agrario. Con la distruzione dei vigneti francesi a seguito della filossera il territorio di Brindisi fu individuato come uno dei più vocati a nuovi vigneti. Tantissime terre incolte vennero coltivate a vite. Vennero bonificate zone paludose, furono spiantati moltissimi uliveti per recuperare queste aree agricole ai nuovi vigneti. L’uva, il vino, l’economia del settore segnarono la rinascita di Brindisi. Peccato che tutto questo non è stato possibile mantenerlo. In altre realtà anche vicine e dove l’economia del vino si è saputo consolidare ha creato sviluppo di qualità. Il vino dove si produce e lo si valorizza è diventato parte importante dell’economia.Per produrlo è necessario un lungo periodo di lavori nei campi che danno occupazione a tanti lavoratori e lavoratrici, provoca un interessante movimento di affari, determina movimenti turistici, eleva la qualità della vita e qualifica l’integrazione tra città e campagna. Ma questa è storia e non serve indulgere sulle occasioni mancate; si può trarre, però, qualche insegnamento e trovare nuovi stimoli per recuperare il recuperabile.
La viticoltura brindisina ha origini antiche anche prima del periodo che ho richiamato. Prima i messapi e poi i romani introdussero e consolidarono a Brindisi la coltivazione della vite. Le uve di negroamaro, di malvasia erano note già in quei tempi. Vite e uva crearono a Brindisi anche allora un paesaggio, un indotto, un’economia. Segni di quell’epoca sono i resti delle fornaci che producevano le anfore vinarie che riempite di vino partivano dal porto per tutto il mediterraneo. Queste origini sono stati rimosse, ignorate o dimenticate. La modernizzazione e la industrializzazione invasiva,forzata e calata dall’alto degli anni 50/60 anni ha fatto il resto. Alla campagna, al paesaggio rurale, alla viticoltura fu preferita la certezza dei redditi e i grandi impianti industriali. Ma l’agricoltura è sopravvissuta anche se ridimensionata e non considerata, così come la viticoltura brindisina. Quest’ultima ha grandi potenzialità. Grazie ad alcuni operatori che hanno resistito o che si sono affacciati negli ultimi anni sta raggiungendo livelli di qualità ormai riconosciuta dal mercato e dai consumatori. Mentre molti vini pugliesi si stanno affermando sui mercati, le uve dei vigneti brindisini non tutte, però, vengono trasformate nel territorio e sono ancora utilizzate altrove e per altri vini. Si continua a lavorare per altri!
La viticoltura sta acquistando sempre più importanza e valore contribuendo alla rivalutazione dei territori vocati e dei vitigni autoctoni. Quella brindisina ha tutte le condizioni e le potenzialità per recuperare e per riproporsi con il suo “terroir”, i suoi vitigni autoctoni, con il suo vino, alla luce di ciò che sta avvenendo nel settore in Puglia, in Italia, nel mondo. Brindisi allora deve e può recuperare e credere nelle sue potenzialità agricole e vitivinicole. Dopo la crisi di questi anni e l’incipiente esaurimento del vecchio modello di sviluppo impostato sulla industria di base(petrolchimica) e di servizio(energia da fossili) i contorni di un nuovo sviluppo possono avere nell’agricoltura un solido riferimento.
Dopo lo svellimento incentivato dei vigneti negli anni 70/80((si è passato dai 33.500 ettari vitati censiti in tutta la provincia nel 1970 ai circa 11.000 del 2016!), dopo la crisi del metanolo, dopo quella delle cooperative sociali e dopo l’asservimento agli impianti fotovoltaici di aree agricole pregiate e vocate alla vite, si registra anche a Brindisi un ritorno di interesse alla vitivinicoltura.
Ben 4.000 ettari dell’agro brindisino(il 50% della superficie agraria provinciale di tutta la superficie dove si produce uva da vino) ,tra vecchi e nuovi impianti, sono coltivati a vigneto per uve da vino. Assieme ai 1.300 ettari dell’agro di mesagne costituiscono la zona della Doc Brindisi(una delle poche città che da il proprio nome ad una doc). Una doc poco valorizzata e poco utilizzata dagli stessi viticoltori: su circa 5000 ettari vitati solo 337 sono stati registrati a doc Brindisi!
A novembre dello scorso anno il parlamento ha approvato il Testo Unico del Vino che semplifica e riunisce le norme del settore.
L’art. 1 di questa legge recita testualmente: “La Republica salvaguarda, per la loro specificità e il loro valore in termine di sostenibilità sociale, economica, ambientale e culturale, il vino prodotto della vite, e i territori viticoli, quale parte del patrimonio ambientale, culturale, gastronomico e paesaggistico italiano, nonché frutto di un insieme di competenze, conoscenze, pratiche e tradizioni”.
Questo articolo della legge può diventare il manifesto per rilanciare e valorizzare la vitivinicoltura brindisina. Ci sono oggi favorevoli condizioni per ricostruire a Brindisi una nuova economia e una cultura del vino. Ci sono competenze, pratiche, tradizione e storia. Oggi più che mai è necessario,però, mettere e mettersi assieme(produttori, associazioni,istituzioni), cooperare in maniera innovativa, ripensare e rafforzare le forme associative di tutela, di ricerca, di promozione del prodotto vino e del suo territorio. I produttori,tutti, devono stare in prima fila.
L’economia e la cultura del vino non possono essere solo quelle che si incontrano negli eventi tipo sagre paesane anche se ambiziose e di livello o esaurirsi con essi. Ben vengano eventi come il Negramaro Wine Festival o come quello prossimo del Vinibus terrae. Ma non sono sufficienti e rischiano di diventare solo spettacolo ed indistinta sagra di enogastronomia. C’è bisogno di iniziative in grado di aiutare capacità di conoscenza, di innovazione, di promozione e di valorizzazione dei nostri vini. Le stesse esperienze se pur interessanti fatte nel passato, hanno perso la loro novità iniziale. Non sono quelle che servono. Finiscono il giorno dopo.
Le feste passano… il negroamaro, resta nella vigna, nelle cantine e sul mercato dove bisogna stare con competenza e passione.
Si faccia invece tesoro degli errori commessi o delle esperienze già fatte per avviare percorsi di nuovi eventi per promuovere il nostro vino e il territorio che lo produce.
Un evento, un festival del vino di cui Brindisi avrebbe bisogno, è “un viaggio” che parte dal bicchiere(vino da degustare) attraversa il territorio e il paesaggio(quello vecchio e nuovo dei vigneti brindisini), passa dalle cantine ed arriva alla cultura(storia, tradizione, ricerca, innovazione). Alle istituzioni locali si chieda questo e non l’ennesimo contributo per la “festa”. Il negroamaro brindisino come altri suoi vitigni autoctoni hanno la loro specificità (sentono il clima del mare) ed hanno tutte le potenzialità per imporsi con una propria identità.
L’identità del vino ha un valore economico e non è solo un racconto da comunicare. L’identità è un percorso che affonda le radici nel passato e che si apre al futuro. Questa è la sfida che Brindisi deve fare a se stessa, alla sua istituzione comunale, alla sua agricoltura e ai suoi stessi vecchi, nuovi e potenziali produttori”.
Carmine Dipietrangelo